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Segni di pietra

Già detto e già scritto che Roberto Kusterle non è solo un fotografo, ma vale la pena ripeterlo ancora una volta, presentando questo suo nuovo lavoro perfettamente in linea col suo personalissimo stile, che comporta l’esercizio dell’osservazione attenta della natura e l’instaurazione di un dialogo con i suoi elementi, in questo caso specifico la pietra.
Semplici e umili pietre che con pazienza e curiosità cerca, sceglie, raccoglie e fotografa apprezzandone la forma, la superficie, la materia, la grafìa, il colore. Tutte queste valenze estetiche e percettive le fa sue mettendole al servizio di una sognante creatività, trasferendole sui corpi nudi e sulla pelle dei suoi modelli in stretto rapporto con il materiale di cui si vestono, fondendo vene con venature.
Nascono così dei sorprendenti surreali abbracci fra uomo e materia, fra liscio e ruvido, caldo e freddo, vivo e morto, piccolo e grande, leggero e pesante, sempre pensati e risolti con calibrato equilibrio e moderna eleganza.
A volte la sensazione è di osmosi e complicità, altre volte di contrasto e ostilità, quasi fatica. In casi particolari, ancora, la figura si riflette o si prolunga nella materia stessa entrandone a far parte e talvolta moltiplicandosi in impronte e corpi che sempre si negano a una facile lettura, mimetizzandosi, chiudendosi e accartocciandosi in se stessi, nascondendo volti e sguardi.
E quand’anche il viso è scoperto, gli occhi sono sempre chiusi perché non c’è volontà di comunicazione col mondo esterno, ma piuttosto esigenza di concentrazione in un pensiero intimo sospeso che è, per definizione stessa dell’autore, “anakronos” cioè senza tempo.
Lo stesso spazio in cui la “staged photography” di Kusterle ci conduce è appunto una “messa in scena”, uno spazio nero, buio o pietrificato, privo di ogni possibile riferimento d’orientamento, perché la tensione visiva sia massima sui soggetti, sul pathos che emanano, sulla delicata e contenuta cromìa che a volte si aggiunge alle forme, mai gratuita e sempre sussurrata con discrezione.
Come nei suoi precedenti lavori l’autore gioca sull’ambiguità della fotografia, oggi ancor più potenziata dall’uso delle tecniche di post-produzione digitale a cui si è avvicinato negli ultimi anni, che si affiancano alle sue preziose e quasi magiche abilità di camera oscura.
Questo va letto come naturale esigenza vitale di un creativo che dimostra di voler vivere il suo tempo, conoscerne i linguaggi e piegarli alle sue fantasiose esigenze.
Il dubbio si fa strada e rimane ancor più di prima: cosa è vero e cosa è falso, o meglio “artefatto”?
L’ambiguità ci porta a camminare sul filo, in bilico fra certezza e dubbio, fra rappresentazione e immaginazione, ma lo facciamo volentieri perché proprio nel mélange fra realismo e visionarietà sta, in fondo, il segreto della sua silenziosa e misteriosa arte.

Guido Cecere