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Lo splendore del corpo

“Il genere umano dura solo perché l’uomo ha l’istinto della conservazione.
Se l’uomo non appetisse il cibo o non provasse stimoli sessuali, il genere umano finirebbe subito.
Il gusto e il tatto sono quindi i sensi più necessari alla vita dell’individuo e della specie.
Gli altri aiutano soltanto.”
Olindo Guerrini

Oggi è pienamente riconosciuta e rivalutata l’importanza, per tutte le manifestazioni umane, del corpo e dei sensi, per cui l’intelligenza starebbe non solo o non tanto nel cervello quanto nel complesso inscindibile corpo-mente. Ed è questo complesso che sente, che vive e che comunica: ad esempio quella particolare forma di comunicazione che è il narrare storie (attività irrinunciabile degli esseri umani) non si compie con la testa, non si compie col cuore o con le mani o con gli occhi: si compie con tutto il corpomente.
Ogni atto di comunicazione, di scrittura, di narrazione è un atto globale del corpo-mente da parte del narratore e mette del pari in moto tutto il
corpo-mente del destinatario. E l’intelligenza non è fatta solo di razionalità, ma è intessuta, in un groviglio inestricabile, di emozioni e di sentimenti.
Il corpo, dunque, centro e matrice di ogni attività, bastione incrollabile della nostra identità, depositario e garante dei nostri diritti più elementari e vitali: il cibo, il sesso, la vita stessa. Tutto avviene nel corpo, con il corpo e per il corpo: si nasce e si muore con il corpo, con il corpo si soffre e si patisce e si gode, la vita si genera con un atto rapido del corpo, il corpo agisce per mantenere sé stesso a un livello sufficiente di organizzazione e di metabolismo per continuare ad essere corpo. Che le cose più importanti, l’amore, la vita, il nutrimento, la morte, oltre che la gioia e il dolore, abbiano luogo nel corpo e per il corpo aggiunge mistero al mistero dell’esistenza. Non c’è dunque da stupirsi se da sempre il corpo è al centro dell’attività artistica oltre che naturalmente della ricerca medica e biologica.
I viventi manifestano la loro bellezza e potenza a livello del corpo e s’impongono per portamento e atteggiamento. È nella manifestazione fenomenica che la vita esibisce il suo splendore, non nelle lontane e invisibili fondamenta genetiche: noi viviamo immersi nello stupore del mondo, è da questa luminosa epifania che scaturiscono la passione erotica, l’afflato poetico, l’urgenza fabbricatrice, e anche lo slancio
della conoscenza scientifica: è in questa dispiegata ricchezza che trovano posto le emozioni, la parola, il canto. E quanto più raffinata e complessa è l’organizzazione del fenotipo, tanto più l’espressione della forma s’incentra nella sua testa: ogni umano ha un viso diverso. Quando amiamo, il nostro amore è diretto a una persona, a quella particolare persona, da noi identificata non certo dal genoma, ma da quella
sua lontana e filtrata emanazione, da quel riverbero ricco e cocente che è il suo viso, bocca, sguardo, sorriso: per cui essa entra in noi e vi rimane come l’icona del nostro destino. Gli organi di senso sono raccolti soprattutto nella testa, e questi organi, specie gli occhi, sono anche strumenti di comunicazione: nell’incontro con l’altro, sia esso umano o animale, si cercano immediatamente gli occhi con gli occhi,
perché gli occhi vedono e dicono, intessono un dialogo muto ed eloquente, un dialogo dove la menzogna è bandita: «Guardami negli occhi. Me lo devi dire guardandomi negli occhi» sono le frasi degli innamorati che sospettano un tradimento o che temono un abbandono e che non si fidano delle parole. «A me gli occhi!» è l’ingiunzione del mago prestidigitatore e del ciarlatano.
Quindi se gli occhi dell’altro sono chiusi, come in queste fotografie di Roberto Kusterle, si prova il disagio, perfino il dolore, della comunicazione negata.
Può accadere che parlare con un cieco metta in imbarazzo, come mette in imbarazzo lo sguardo degli autistici, che evita il viso, scivola di lato o verso il basso, in una fissità inespressiva dove non si penetra nonostante il nostro desiderio, il nostro bisogno di stabilire un contatto. In questa raccolta, un paio di foto mostrano un occhio umano, ed è un occhio polifemico, minaccioso e terribile come un urlo (La maschera dell’ipocrisia, Pasto ciclopico). Altri occhi aperti appartengono ad animali: quelli attoniti dei pesci (La carpa razzista, Binocolo Marino, Pseudoedipo, Pesci cinesi, che richiama il proverbio appunto cinese ‘Pesce grande mangia pesce piccolo’), quelli, invisibili e brulicanti, degli insetti, spesso api (Ronzio, L’ape solitaria, La portatrice di mele marce, Nuove amicizie, La sana mietitura) o quelli, inaccessibili, dei gasteropodi (Ma dove andate?,
Cosmesi esplorative, Annusai la lentezza, La chiocciola albina, Vortici della serenità, Raccoglimento) o degli aspidi (Il veleno dello stupore, La collana della meditazione) o di serpentelli d’acqua (Ascolto l’odore). Gli occhi degli umani non vedono: a volte offrono, imbiancati da
una vasta papula ostruttiva, il sacrificio della vista come un dono d’amore (Cieca per te) oppure sono celati (La vendemmiatrice timida), rivolti altrove (L’angelo della notte), chiusi (Antiche amicizie), murati da protesi inquietanti (Lenti a contatto, Il nuotatore dei prati) o si negano alla loro funzione (Paura della luce). Le palpebre serrate potrebbero talora nascondere l’assenza dei globi oculari, che possiamo immaginare caduti
all’indietro con un rumore di matite o di biglie di vetro, come accadeva, grazie a un invisibile meccanismo a contrappeso, quando certe vecchie bambole dal viso attonito e paffuto venivano sdraiate.
La cecità degli occhi, la loro chiusura, l’impossibilità di comunione degli sguardi, dirige il nostro sguardo al corpo, specie al corpo femminile nel suo splendore ineguagliabile, talora in simbiosi con piante che si rivelano costituirne la struttura interna (Crescita interiore) oppure ibridati con animali irti di corna (Capro impotente, Unicorno tradito, Nostalgia di amplessi) o muniti di morbide orecchie asinine (Con il vento alle spalle). In Kusterle spesso il corpo è lavorato, impastato di terra (L’ostacolo, Il richiamo, Quelle poesie del mare), oppure istoriato di segni, lettere, simboli (Algebra facile) o trasformato in un globo terracqueo che si iscrive con i suoi oceani e continenti sul ventre dolcemente ricurvo di una donna incinta (Il nuovo mondo) o rivestito di schizzi e arcani ghirigori (I sentieri segreti), imprigionato in un sarcofago minerale (Camicia di pietra), mostruosamente trasformato in un ammasso d’argilla da cui protrude un’agghiacciante mascella scarnificata (Risveglio della pietra), ricoperto di spine (Pudore della luce). Questi corpi, specie quelli femminili, sono il simbolo e l’immagine di una ritualità antica, quasi barbarica, di un ritorno alle tradizioni terrestri, alla fecondità primigenia e ribollente delle Veneri paleolitiche (Offerta alla terra) e solo in alcuni casi si
offrono alla contemplazione nella loro impareggiabile grazia di corpi nudi, chiaroscurali (All’inizio), colmi di lievitante erotismo (Crescita interiore).
C’è dunque nella poetica di Roberto Kusterle una potente suggestione onirica, che suscita sorpresa e curiosità e che propone una lettura inedita del corpo nella sua immensa carica simbolica, nel suo fascino inesauribile che spinge all’esplorazione tattile e anatomica, al commercio sessuale, all’analisi autoptica, ma che prelude anche agli interventi di chirurgia, terapeutica o estetica o trasformativa o scultoria (si pensi a certi artisti del corpo, come Orlane, Stelarc, Gina Pane): tatuaggi, amputazioni, inserzioni, espianti, trapianti, incisioni, scomposizioni, mutilazioni, scarnificazioni, infibulazioni, che spesso incarnano (appunto) l’esercizio del potere e della prevaricazione oppure esprimono il bisogno di ornarsi
di – o nascondersi e trasformarsi con – decorazioni inestirpabili se non con operazioni cruente, e si cristallizzano in una cultura tribale o postmoderna, spingendosi al limite della tortura.
E a proposito di tortura, quale indifferenza per il dolore del corpo poteva albergare in sé il boia, dell’Inquisizione e non solo, munito di tenaglie,
coltelli, straziatoi, esperto nell’uso di tutti i ferri e gli strumenti che l’inventiva umana aveva escogitato per infliggere sofferenza e tribolazione, quale curiosità malata spingeva le folle ad assistere agli squartamenti, ai supplizi, alle decapitazioni: sempre protagonista il corpo (penso al supplizio di Marcantonio Bragadin, mutilato e torturato per due settimane dopo la caduta di Famagosta, nell’estate del 1571, e infine scuoiato
vivo). Anche oggi davanti a schermi baluginanti moltitudini sterminate, combattute tra orrore e fascinazione, guardano le sevizie praticate sui corpi delle vittime dagli adepti di sedicenti religioni. E il corpo, nella sua inenarrabile complessità di pelle, ossa, muscoli, cartilagini, tendini, nervi, continua ad essere fonte di stupore, ispiratore di opere d’arte, fomentatore di desiderio e di repulsione, vaso di tutte le corruzioni e
di tutte le delizie.
E che dire della pelle, di questo mirabile e sensibilissimo tegumento che è filtro e confine del corpo, ma che con la sua sensibilità si protende
all’esterno per mettere l’io in comunicazione con il mondo. Abbiamo bisogno di carezze, di abbracci, di baci: già il neonato cerca nel corpo della madre, nella sua pelle calda e sensibile, un conforto, una consolazione dall’esser nato, un prolungamento della propria pelle: e questo tentativo di comunione primigenia durerà tutta la vita, estendendosi ad altri corpi, ma sempre nel ricordo tenace e inconsapevole del corpo materno. Con la sua grana, con il suo odore, con la sua morbida tessitura, la pelle costituisce un potente catalizzatore e convogliatore di messaggi, un organo di senso diffuso e polimorfo, sede di quel vasto e complicato alfabeto del tatto che, specie nelle faccende d’amore, può segnare il destino di una vita.
Dalle grotte di Altamira e di Lascaux, attraverso le statue della grecità e i dipinti del Rinascimento, fino alle cere gialle e rosse dei musei anatomici, il corpo simboleggia il nostro greve retaggio di creature terrestri, e insieme lo slancio verso le mete più alte della spiritualità. L’innocenza virginale e le infinite variazioni della pornografia costituiscono gli estremi opposti, ma forse coincidenti, della vastissima gamma
di esperienze e vibrazioni che ci offre questo strumento mutevole, splendido e misterioso che è il nostro corpo.

Giuseppe O. Longo