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Incubi grotteschi, dolci sogni

Dire di Roberto Kusterle che è un fotografo è sicuramente riduttivo: è infatti un artista che si serve della fotografia, ma solo come ultimo stadio di un processo creativo polimorfe e laborioso che inizia molto da lontano e che trova nella registrazione fotografica il medium privilegiato per la cristallizzazione dell’immagine.
Tutta la sua ricerca implica, al di là dell’intuizione iniziale, una serie di competenze e capacità specifiche che lui dimostra di padroneggiare con disinvoltura e fantasia: Kusterle è prima di tutto regista, poi scultore, decoratore, costumista, truccatore, “mago” e, solo alla fine, fotografo.
Gli anglosassoni usano, per questo tipo di fotografia, il termine ben calzante staged photography che a fatica potremmo tradurre in “fotografia di una messa in scena” o “fotografia teatralizzata”.
Siamo infatti di fronte a immagini, quelle del nucleo più consistente e più antico del suo lavoro, che paiono estratte dal grande teatro della vita e più in particolare dal mondo onirico, che volenti o nolenti interagisce con la vita cosciente e razionale.
Con la conquistata e partecipe complicità dei suoi modelli l’artista mette in scena quelli che lui stesso definisce “riti del corpo”. Il corpo è infatti al centro di un’indagine che Io riporta indietro nel tempo, alle sue origini primitive, con molte connotazioni che lo rappresentano come “animale”,sia nella mimetica vestizione cutanea, sia nella dedizione a magici rituali dal sapore arcaico, e Io vedono protagonista di innesti e ibridazioni col mondo animale e vegetale.
A volte questi riti si collocano nella dimensione di una paramitologia autocostruita ricca di riferimenti simbolici antichi e classici, che l’autore coniuga magistralmente con un’atmosfera di sapore surreale, venata ora di sensuale erotismo, ora di sarcastica ironia che stempera i sapori forti di alcune immagini, veri incubi inquietanti.
Le sue stridenti o armoniche fusioni, veri schiaffi visivi, sono spesso in bilico fra l’orrido e il buffo. lo stupefacente e il grottesco.
Queste dualità dolce-aspro, reale-sognato, vero-falso le ritroviamo poi come poetica costante in tutto il suo lavoro, anche quello più recente.
Da un punto di vista tecnico, Kusterle ha scelto, per tutta questa parte della sua ricerca, il bianco e nero perché già di per sé questa soluzione colloca i soggetti in una dimensione altra rispetto alla realtà e, non contento di ciò, ha trattato le sue stampe con un viraggio ed un bagno speciale che conferiscono alle immagini un’intonazione “fuori dal tempo” con esiti di metallicità assai particolari.
Inoltre, per evitare un eccesso di realismo iperdettagliato, opera con una metodologia di riproduzione tutta personale, che parte da un`attenta illuminazione plastica e morbida al tempo stesso , per arrivare poi ad un risultato di stampa che “scrive” i soggetti con pastosa matericità.
Queste precisazioni non sono una lettura maniacale in chiave tecnicistica, ma un doveroso apprezzamento per una τέχνη che etimologicamente è anche arte.
Nella serie “pareti del dolce abbandono” Kusterle continua la sua operazione di μίμησις fra uomo e natura, aggiungendo un elemento nuovo di straniamento: il colore.
Continuando il suo viaggio onirico nelle pieghe dell’inconscio, ritrae una serie di affascinanti figure femminili, il cui sguardo ci è negato, che sono adorne di fiori le cui cromie sono in perfetta sintonia con quelle delle labbra, delle guance, della carnagione, anche se non si tratta di un colore modulato (reale), ma piuttosto di un monocromo (finzione).
Questo avviene perché la foto è di base un bianco e nero che viene poi virato e infine colorato manualmente.
L’inganno ottico questa volta è giocato con lo sfondo costituito da carte da parati fiorate, ricercate con gusto démodé, a volte persino kitsch, che contengono fiori stampati ai quali l’autore aggiunge qua e là fiori reali, artatamente mascherati con la complicità della “omogeneizzazione ottica” tipica della fotografia.
Tutto ciò va letto ancora come coniugazione di una dualità di sistemi allegorici interagenti: il corpo, la donna, i fiori come simboli di energia, di bellezza, di naturalezza uniti alla loro rappresentazione: il fiore stampato, il fiore finto e la fotografia stessa, che ingaggia una competizione (illusione) con la realtà creando un’ingannevole continuità figurale.
Si cerca una relazione fra la natura e la sua possibile “artificialità” usando l’illusione (ottica e mentale) come passaggio e trasformazione del già conosciuto in stupefacente.
E ancora Kusterle non contento della bidimensionalità del mezzo fotografico, si avventura in territori davvero inesplorati nel mondo della fotografia.
Si inventa un grande trittico a pavimento, un’opera trompe l’oeil in cui riesce incredibilmente, e con grande eleganza, a “fondere” letteralmente il corpo di una modella che giace distesa fra le foglie e l’acqua, con foglie reali inglobate in una resina che racchiude in sé anche la stampa fotografica. Il risultato è straordinario: la compresenza di diversi piani e diversi materiali che si lasciano leggere “per sommatoria” modifica e stravolge la visione.
Si può tranquillamente affermare che Kusterle ha creato una condizione nuova, in fotografia, di usufruire dello spazio e della sua percezione.
Tutto il suo lavoro è, in ultima analisi, teso a portare il nostro sguardo lontano dalla pigra abitudine voyeristica e parassita di chi vede “alle spalle” di altri, e cerca piuttosto di coinvolgerci in prima persona in un’avventura visuale che a volte diventa addirittura visionaria.
Kusterle trasforma il sogno in realtà, la fotografia trasforma la realtà in sottile e raffinato inganno, e credere a questo inganno diventa inevitabilmente affascinante.

 

Guido Cecere