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I segni della metembiosi

Tra le invenzioni di Raimondo di Sangro, VII principe di Sansevero, esoterista, alchimista, erudito, filosofo e poligrafo del Settecento, sono degnissime di nota due ‘macchine anatomiche’ conservate nella cavea sotterranea della Cappella Gentilizia di Santa Maria della Pietà, in Napoli.
Queste statue o modelli anatomici sono costituiti da due scheletri umani (di uno che fu uomo e di una che fu donna), rivestiti solamente dall’impressionante reticolo rosso e azzurro dei vasi sanguigni: senza pelle, senza organi interni, senza muscoli. Secondo la leggenda (ma è poi leggenda?), il principe avrebbe iniettato un liquido di sua invenzione nel corpo dei soggetti ancora vivi per ottenere la metallizzazione completa del fitto e intricato groviglio dei vasi, dall’aorta fino ai capillari più sottili: infatti soltanto il cuore pulsante avrebbe potuto spingere il misterioso fluido mescolato col sangue fino alle propaggini estreme del sistema circolatorio. E la donna era incinta.
Vera o inventata, questa orrorifica storia di scarnificazione e imbalsamazione in vivo ci riporta alle ultime fotografie di Roberto Kusterle, in cui l’epidermide dei soggetti, lacerata per ampi tratti, o brevi, mette a nudo un sottostante intrico di fuscelli, sterpi, stecchi irti e contorti, che nel loro spezzettato scompiglio rivelano un’ipotetica anatomia interna di uomini e donne impagliati: la vera natura dell’umano.
E da questi corpi scortecciati protrudono strane creature animali, che sembrano nascere dal groviglio interiore o che su di esso stanno appollaiati come segni ammonitori di un’inversione possibile del rapporto di forza tra uomo e bestia, tra uomo e natura. Ora è l’uomo ad essere abitato dagli animali o ad offrire loro un luogo di vedetta, un punto d’appoggio: si veda Quartetto, Crescita, Curiosità, Riflessioni, Dono di Caccia, Il gufo diffidente, Il ramo del canto, La serena convivenza, e, in particolare, Punto di osservazione. E non v’è distinzione tra uomo e donna: i caratteri femminili, pur presenti e a volte conturbanti, sono irrilevanti di fronte al comune destino di sopraffazione inferta e poi subita: l’uomo è divenuto schiavo e della schiavitù porta gli emblemi: pesanti corregge di cuoio che ne macerano la pelle (Fondo Copia??) o crudeli imbracature di ferro a imprigionare saldamente la testa e il collo (Il giogo del falconiere), mentre la donna nutre di sé, del proprio corpo vivo, uccelli che possiamo immaginare curiosi e sapienti (Crescita), oppure sopporta il greve fardello di una petulante famiglia di volatili, abitatori di uno spaventoso nido intrecciato in cui si è trasformato il suo capo (Coro).
L’inversione dei rapporti è evidente nell’Addestratore, dove il falcone (o avvoltoio?) è libero di volare, mentre l’uomo è legato al suo destino di cuoio e di metallo. Più impressionanti ancora sono i meticciamenti, per cui gli umani manifestano il principio di una trasmutazione che li porta a una simbiosi bizzarra o mostruosa con l’animale: si veda Matrimonio sacro 1 e 2, Lupe, Respiro profondo, La maschera bianca, Necessità del mattino, L’incontro nel bosco e, forse il più raccapricciante, Il cacciatore pentito, dove, per una sorta di nemesi, non vi è più distinzione tra preda e predatore, entrambi avvinti, più che in una simbiosi, in una vera e propria metembiosi, una migrazione-trasformazione dei corpi, dall’uomo al cinghiale, ripresa in una fase iniziale o già avanzata, ma non ancora compiuta.
Come in altre opere di Kusterle, questa metembiosi allude a una possibile deriva verso il postumano, ma un postumano non potenziato da protesi macchiniche, da innesti o da manipolazioni genetiche, bensì depotenziato (o irrobustito?) da impianti ferini o uccelleschi: una regressione verso una natura primordiale e inconsapevole, da cui l’umanità credeva di essersi affrancata e che invece ritorna potente e inesorabile ad occupare i territori da cui era stata spodestata.
L’uomo si trova reinserito nel contesto del mondo animale (come in altre opere nel contesto vegetale o marino) e in esso è appiattito: il suo orgoglio è scomparso, debellato e punito dalla rivincita dell’altro da sé. Perché gli animali, sfruttati, picchiati, cacciati, sventrati, scannati, sono i nostri compagni di viaggio e chiedono con forza muta e con occhi eloquenti di essere da noi accolti: si veda Dono di caccia, Il sogno dell’artiglio, La carezza di Bruges, La fiducia. Oppure, rinunciando al dialogo, ci sovrastano senza più riguardo e si apprestano a detronizzarci con tranquilla fermezza: Sentinella, Quartetto, La serena convivenza, Il gufo diffidente, Il giogo del falconiere.
E i segni della metembiosi si riscontrano anche nella pelle e negli occhi degli umani: gli occhi di uomini e donne sono sempre chiusi, come in un abbandono o smemoratezza, in un principio di incoscienza ipnotica, in un crepuscolo della mente e dell’anima. A reggere, ma ancora per poco, sono solo i corpi, che pure decadono, si spellano e si trasformano, cercano di resistere abbracciandosi oppure ignorando il mondo, appunto con gli occhi chiusi.
Lo spirito, invece, si è già ritirato, è caduto all’indietro nel baratro dell’oblio. All’opposto, l’animale guarda: ha gli occhi aperti nella pazienza, spalancati nello stupore, sbarrati in un’attenzione spasmodica verso i soggetti umani e verso il mondo che gli si apre davanti, nuovo e intatto, promessa di esistenza novella, appunto di metembiosi: un mondo pieno di sensibilità e di delicatezza (Protezione del nido).
L’altro luogo emblematico della trasmigrazione è la pelle: trattata con argilla, ne reca i segni nella ruvidezza, nell’opacità scabra che si oppone allo splendore levigato dell’epidermide umana, specie femminile, quasi un’umiliazione della luminosità. E se non è passata l’argilla, sulla pelle è passata la luce, imprimendovi le tracce di un’esplosione fotografica, direi quasi radioattiva, una folgorazione di colature, di innervamenti, di emanazioni fantasmatiche, quasi una foto ai raggi X del sottostante impianto di organi e vene in procinto di trasformarsi in sterpi e ramoscelli.
E sintesi concettuale di questo processo di metembiosi è il titolo dell’ultima fotografia della serie, Simbiosi, in cui una donna di spalle, dall’epidermide maculata dal trattamento con la creta, sostiene sull’omero sinistro un uovo enorme, rabescato d’argento su fondo nero, una sorta di uovo cosmico da cui potrebbe nascere una razza nuova, ibrida di umani e di animali, forse più saggia e meno crudele.

Giuseppe O. Longo